Note: there are no precise citations here because it is a draft. If you want to know the sources, write me! It is a position paper for a workshop June 25-26 in Innsbruck, Austria.
Tradurre un neologismo inglese – “unhistoricism” — in italiano: magari sarebbe una metafora adatta per il progetto di cui intendo parlarvi oggi. Recentemente, Michela Baldo ha proposto una relazione tra traduzione come un atto creativo di disfarsi e rifarsi e la performatività e l’affettività associati oggi con gender (almeno a coloro che credono in quello che dice Judith Butler). Respingendo l’idea che la traduzione sia “il trasporto di un originale da una cultura all’altra” o, persino peggio, la riproduzione di una “brutta copia,” Baldo suggerisce che ci sia qualcosa di “queer” nel atto di tradurre. La parola “queer” in sè ci ricorda dei “qualcos’altro” – né omosessuale, né gay, né eterosessuale, né lesbica, né bisessuale, né trans – che non può essere tradotto senza aggiungere e sottrare un senso. Come gender ( parola che rimane invariata nel contesto italiano!), tradurre è ripetere, ma con una differenza, la specificazione di cui non si può sapere in anticipo. Inoltre, traduttore è creare (e non semplicemente scoprire) una relazione tra due gruppi linguistiche. (Questa espressione”gruppi linguistiche,” non mi piace, ma la uso per evitare una parola più idealizata come “communità”). Come Baldo scrive, “I traduttori sono attori sociali . . . . La traduzione ha dunque favorite la creazione di nuovi reti sociali.” (5)
E la natura di queste reti? Ponendosi questa domanda, Bardo esplora la relazione tra l’atto di traduzione e l’affettività. “L’affetivà mette insieme due corpi che entrano in contatto e si trasformano. L’affettività è la forza propulsiva che spinge a tradurre questi corpi tra di loro, a consegnarli gli uni agli altri” (6). Quindi, una traduzione non è mai un atto disinteressato e neanche individuale, una traduzione attraversa un “io” e un “tu,” o, meglio, perche non c’è una lingua privata, un “noi” e un “loro.” Un atto in cui uno spazio intermediale è creato, la lingua è una sorta di “oggetto” (nel senso Winnecottiano) che negozia lo spazio tra un soggetto e il proprio altro/la propria altra.
Oggi, prestando e adattatando Baldo, vorrei parlare della storia come un atto di tradurre, di farsi e disfarsi il passato nel servizio del presente. Ecco magari sarebbe il nocciolo di “queer instoricismo”: che la storiagrafia non è mai disinteressato, che ogni atto di scrivere la storia di genere e sessualità è una traduzione, che questa traduzione è una sforza del contatto affettivo con il passato (come scrive Carla Freccero), che “la nostra sessualità” è plurale, e che queste insistenze iniziano – e non concludono – la nostra esplorazione della storia. È il punto di partenza – non la linea del traguardo .
Ma spero anche di iniziare a tradurre un metodo – queer instoricismo — non solo trasportando questo metodo oltremare (e oltralpe!) ma, dopo il nostro incontro, ritrasportandolo, a casa mia — uno spazio fisico ma anche uno spazio disciplinare. Per me, la nostra situazione in questo momento è per sè, propria queer, come provo di disfarmi e rifarmi trans-lingualmente, trans-disciplinarmente, e trans-globalmente.
Lorenzo Bernini, nel suo Apocalissi queer, ha scritto un vera genealogia Foucauldiana di queer studies in Italia. In particolare, Bernini è attentivo all’emergenza delle residui di che cosa diventerà queer theory nei lavori di Guy Hocquenghem in Francia e Mario Mieli in Italia. Questa forza ci ricorda anche che la storia gay negli stati uniti non è singolare nel senso che il movimento fu, dal inizio, lacerato da interessi diversi e incluse componenti communiste (per esempio; Charles). Il modello proposto da Bernini suggerisce una moda di storia conflitta e contestata, una moda della memoria performativa. Ricordiamo anche che, per Gramsci, l’egemonia è un processo (e non semplicemente uno scopo o fait accompli), una guerra della posizione. (Nel contesto americano, a mio avviso, c’è oggi una tendenza di trattare egemonia come uno stato di dominazione ideologicala fissa, l’opposta del senso che Gramsci propose. Per essempio, ho letto recemente, “Hegemony is domination via consent”/l’egomonia è dominazione via consento” ) In altre parole, scrivere la storia è entrare nella battaglia per egemonia.
Vorrei ritornare ancora a Baldo, quando si parla della traduzione in Italia di queer studies, “non si possa più parlare di passaggi senza trasformazioni e di un movimento direzionale da un testo di partenza ad un testo di arrivo (la traduzione) ma di vari movimenti e punti di partenza. La cultura di arrivo gioca un ruolo importantissimo nel dettare quali sono gli interessi e i messaggi che si vogliono divulgare attraverso la traduzione” (7-8). Perche gli interessi sono anonimi e eterogeni, aggiungerei che questo “dettato” non è sotto il controllo dei attori individui. Ma la traduzione puo “diventa il pretesto casalingo per parlare di bisogni insiti in una certa cultura e rivelare per essempio ciò che il testo tradotto non dice e che invece potrebbe dire” (Baldo). (Baldo 8).
Nel mio lavoro, queste parole suggeriscono la responsibilità di apprendere più di queer Italian Studies. La traduzione mi chiede come queer studies italiano puo informare il mio lavoro. Negli stati uniti, per esempio, il queer critique di capitalism è sottovalutato. (l’uniche cose che arrivano dagli Stati Uniti in Italia sono i libri di Judith Butler, Eve Sedgwick, Lee Edelman, e Leo Bersani – nessun’intelletuale marxista.) La storia d’Italia detta una ricca tradizione di impegno intelletuale di un tipo diverso da quello degli Stati Uniti, e questa storia mi chiede di studiare la storia di queer Italia e non semplicemente “queerizzare” Italian Studies.
Mentre “il termine queer fa già parte dell’immaginario accademico anglofono e oltralpe, in Italia non ha ancora raggiunto lo statuto di disciplina riconoscibile” (Bortolami e Mogno, QIS workshop). Un mese fa, a Birmingham, un “Italian queer studies workshop” ha riunito un gruppo d’intelletuali da Italia, dagli stati uniti, e dal Regno Unito con l’intenzione di rendere possibile una sorta di rete di sostegno internazionale per coloro che sperano di nutrire quest’ “anti-disciplino.” Con il suo sottonome “arte/teoria/attivismo,” per esempio, Archivio Queer Italia ha creato uno spazio internazionale/interdisciplinare, e, in questo paper spero di continuare a contribuire a quella forza.
Una cosa che caratterizza queer studies è il tentativo di essere “trans” o “uni-“ disciplinare. Ma cosa vuol dire? L’antropologista James Clifford ha fornito questa spiegazione di come funzionano le discipline :
There are no natural or intrinsic disciplines. All knowledge is interdisciplinary. Thus, disciplines define and redefine themselves interactively and competitively. They do this by inventing traditions and canons, by consecrating methodological norms and research practices, by appropriating, translating, silencing, and holding at bay adjacent perspectives. Active processes of disciplining operate at various levels, defining “hot” and “cold” domains of the disciplinary culture, certain areas that change rapidly and others that are relatively invariant. They articulate, in tactically shifting ways, the solid core and the negotiable edge of a recognizable domain of knowledge and research practice. Institutionalization channels and slows but cannot stop these processes of redefinition, except at peril of sclerosis.[i]
Non ci sono le discipline né naturali né intrensici. Tutta la conoscenza è interdisciplinare. Quindi, le discipline definiscono se stesse interattivamente e competitivamente. Fanno questo inventando tradizioni e canoni, da consacrando le norme metodologiche e abitudini di ricerca, da appropriandosi, facendo traduzioni, facendo tacere, e tenendo alla larga punti di viste adiacenti. Processi attivi di disciplino funzionano a piani svariati, definendo “caldi” e “freddi” gli ambiti della cultura disciplinaria, quelle sfere che cambiano rapidamente e quelle altre relativamente invarianti. Enunciano, in modi tatticamente mutevoli, il nucleo solido e il confine trattabile degli ambiti di conoscenza e di ricerca riconoscibili. L’istituzionalizzazione incanala e rallenta ma, senza il rischio di pericoli di sclerosi, non può fermare questi processi di ridefinizioni.
Di fronte a queste manovre disciplinari, queer studies cerca di creare uno spazio contestato, uno spazio in cui magari sia possibile che il meccanismo disciplinare si inceppi. Nel contesto di genere e sessualità, queer studies propone una deconstruzione – e non una distruzione (almeno non ancora!) delle categorie binarie maschili/femminili e omosessuale/eterosessuale. Questo spazio disciplinare contestato è “trans.” È soppradeterminato della storia moderna – un modo di dire che non è possibile fuggire dal capitalismo, che il soggetto di sessualità e genere moderno è il prodotto di condizioni specifici di capitalismo e dello stato moderno.
A questa forza, queer instoricismo apporta una deconstruzione anche delle categorie da cui apprendiamo la differenza tra il passato ed il presente, una continuazione ed una rottura, una identicità ed una differenza, un “noi” e “loro.” Il problema più tenace: come ci fa pensare un instoricismo né storicista né astorico. Oggi, il nodo di questo problema è come scrivere una storia della differenza precisa tra un genere moderno e una sessualità moderna meno un telos – un problema lasciato in eredità a noi nella concezione della modernità stessa.
Friedrich Nietzsche, Walter Benjamin, Michel Foucault, Hayden White, Gayatri Spivak – questi sono alcuni dei nomi associati con la genealogia di queer instoricismo. Mantenere un difficile e contingente equilibrio tra la continuità e la discontinuità, il “residuo” e “l’emergente,” queer instoricismo cerca di pensare alla storia meno teleologica. In un senso, è una continuazione della storia critica di Nietzsche (contra cui postulò la storia monumentale e la storia antiquaria). Sebbene questa formulazione rischia una teleologia, dato la tendenza di coloro che praticano queer teoria di rivendicare la critica avanguardia critica, (e l’imputazione che queer theory è anglosassone,) in questo momento, credo che valga la pena di rischiare una teleologia per situare questi dibattiti in un contesto trans-globale e trans-disciplinare. (Un’altra motivazione: nel presente, i dibattiti rischiano di essere fossilizzati su un passagio in La Storia di sessualità di Foucault, a scapito della influenza del suo saggio “Nietzsche/genealoria/storia.” In questo passaggio, Foucault notò la differenza tra il sodomita e l’omossessuale come un’inversione di genere. Mi sembra che questa formulazione non sia stato un’affermazione di una rottura assoluta, ma una che non ne cattura la complessità della sessualità in questo momento, e infatti Foucault ebbe una tendenza di giocare con il tempo in cui la società disciplinare “emerse”; sia L’Illuminzaione, sia il Novecento, e nella sua genealogia del queer, Bernini ha tracciata una linea tra la filosofia dello stato moderno di Hobbes ed il concetto di biopolitica di Foucault; 158-59)
Ma, negli Stati Uniti, il queer instoricismo è anche una risposta al “new historicism” di Steven Greenblatt (per esempio), che si impegna nell’esplorazione della storia via la letteratura. Il dibattito instoricismo è fra quelli nelle discipline di Literary and Cultural Studies (e non la storia), e questi dibattiti si trattano del Rinascimento, la distanza temporale da cui sforzo una sorta di impegno immaginario con il passato. La mancanza dell’evidenza materiale del Rinascimento ci costringe a minare la letteratura (e l’arte) per una conoscenza del passato. Il queer instoricismo è anche una esplorazione critica del “new historicism” e le sue pretese di controllare il passato nel atto di renderlo “saputo,” anche se attraverso la letteratura.
Arrivo finalmente parlare del mio progetto – propongo di scrivere una storia moderna instoricista, I rischi sono tanti. Per ragioni chiare (se non ovvie), sul soggetto di fascismo Italiano, lo storicismo rimane un metodo legittimo, ed il progetto di scoprire un telos che può spiegarlo è quasi normale. C’è un’ostilità o forse una vera (e sincera) paura di un astoricismo che renderebbe il fascismo immateriale o incomprensibile, o, peggio, che dimentica i suoi propri terrori. Nella sua risposta del mio lavoro, per esempio, Lorenzo Benadusi ha criticato il mio desiderio di spiegare fascismo come un “cultural logic” che non fu specifico d’Italia (o il ventennio) ma ha una vita nel presento (e una relazione a capitalism). “Il nostro fascism,” come un’amica (Italiana) mi ha detto. Questo sentimento coinvolge non solo la disciplina della Storia ma anche la questione dell’appropriazione, del tourismo culturale intelletuale, e, perche sono dagli stati uniti, neoimperialismo. Ma si occorre rifiutarsi dimenticare il ruolo di nazionalismo nella genealogia della disciplina di storia, il ruolo che giocò nella consolidazione di nazionalità come identità immaginaria. E l’idea che il legga norda è indebittata a fascismo e ben commune. (Stavo preparando questo paper quando l’ho sentita in una intervista con Matteo Salvini!)
La relazione tra l’affettività e queer instoricismo è esplorato in modo convincente dalla instoricista queer Carla Freccereo. Il soggetto di sessualità e genere è un soggetto del corpo, un corpo che risponde e resiste, diviene economico e sprecone. Come il capitalismo, muove verso la commodificazione di tutto, le contradizioni si moltiplicano, producendo una sorta di dispersione. Agenzia e containment, limiti e possibilità. Mentre la “strumentalizzazione dei corpi da parte del capitale liberale” (Balda 8) “esorta al godimento della cosa, alla reificazione del sé come oggetto di scambio, alla dissoluzione del legame familiare e sociale in una logica dissipativa” (Bernini 100),” il corpo oggi “puo essere [anche] una forza propulsiva immensa per la rigenerazione e la produzione di nuovi discorsi e dialoghi sul queer e di nuove affettività e alleanze che possano, a loro volta, dar vita a nuovi discorsi” (Baldo 8). Nel contesto italiano, Bernini, per esempio, ha esplorato la figura del Zombie queer consumista delle società avanzate).
Il mio progetto: fabbricare un metodo di studiare (e descrivere) la cultura artistica omoerotica durante il ventennio – un metodo affettivo che evita lo storicismo e il positivismo (quando sono in buon umore, dico “positivismo residuale,” ben sapendo che questa frase è, in se stessa, storicista). Avendo scelto sette artisti – Umberto Saba, Sandro Penna, Corrado Cagli, Filippo de Pisis, Cesare Pavese, Guglielmo Janni, e Giovanni Comisso – spero di scoprire come fosse stato possibile per questi uomini vivere le proprie vite. Si conobbero l’uno con l’altro? Fu, più o meno, un circolo degli artisti che amavano uomini? Come hanno fatto questi uomini a capire ed a vivire la loro soggettività e la loro identità. (Per me, la differenza è la differenza tra i discorsi e le istituzioni che definiscono le mode d’esistenze in uno spazio ed in un tempo specifico, e l’autodefinizione. L’identità è un insieme della soggettività, con un elemento d’agenzia. La soggettività enfatizza invece il collocamento o “avevo messo.” C’e sempre una sfumatura di soggettazione che la parola “identità” non copre.)
Tutti quelli artisti che nacquero prima del regime; tutti quelli che lo sopravvissero, benché ci siano stati due “generazioni”: Janni, De Pisis, e Comisso, per esempio, parteciparono alla prima Guerra mondiale, mentre Pavese fu arrestato nel 1935 e condannato a tre anni di carcere ( da cui ne ha scontato soltanto uno) e Cagli si arruolò nell’esercito Americano.
Per la maggior parte della sua vita, Penna (che naque a Perugia) abitò a Roma (ma passò anche un periodo dal 1937 al 1939, a Milano). Come Ebreo, Saba, naque a Triste ed emigrò a Parigi nel 1938. Alla fine del 1939, tornò in Italia ( prima a Roma e poi a Trieste), ma nel settembre di 1943, fuggì a Firenze. Dopo la Guerra, visse a Roma e dopo a Milano. Naque a Ferrara, De Pisis si trasferi a Parigi nel 1925, ma tornò in Italia nel 1938. Abitò a Milano e poi a Venezia. Janni naque a Roma. La sua storia è commuovente – come quella di Pavese. Nel 1938 “rinuncia completamente alla pittura e si dedica solo allo studio di scritti inediti del bisnonno Giuseppe Gioachino Belli.” Questo progetto non fu mai finito. Comisso naque a Treviso. Durante la sua vita, viaggiò tanto ed ebbe un lungo sodalizio con De Pisis. Durante questo periodo, scrisse un libro. Morì a Treviso. Anche l’ebreo Corrado Cagli lasciò l’Italia per gli Stati Uniti per l’impostazione delle leggi raziali, avendo comminciato la sua carriera come muralista e ceramista propagandista del regime. A New York, dopo la guerra, lavorò con il New York City Ballet, ma negli ultimi anni della sua vita, si stabilì a Roma.
La relazione tra Saba e Penna è ben conosciuta. Saba fu una sorte di “mentore” di Penna. Fu Penna che scrisse che Saba fu omosessuale. Tanti artisti si incontrarono a Firenze alle Giubbe Rosse ( compresi Penna e Pavese ) (Pecora 359) ed al Caffè Greco a Roma. Penna fu anche amico di De Pisis (Pecora 363). C’era, infatti, una corrispondenza tra, per esempio, Comisso e De Pisis – il primo dei quali scrisse un libro su il secondo. Il mondo artistico negli anni fascisti fu piccolo ma anche fecondo ed internazionale. Le riviste moderniste producevano un ambito in cui gli artisti si scambiavano idee. Tanti artisti italiani studiavano (e facevano esposizioni) a Parigi, e gli artisti italiani chi corrispondevano con Tristan Tzara furono numerosi.
Anticipo che Pavese è il caso più difficile – dato che la sua omosessualità rimane allo stato di una voce. Sappiamo cosa ha scritto su Walt Whitman, ma solo un identitarianismo volgare potrebbe imaginare che questo sia per sè una prova sufficiente . L’atteggiamento che l’autore adattò al soggetto della sessualità di Whitman è interessante, nel senso che ci fu una sorta di tono rimproverante diretto ai critici che furono scandalizzati dalla sensibilità del poeta. Nella letteratura su Pavese, perfino la citazione dello spettro di omosessualità e rarefatta. A questo punto primitivo della mia ricerca, mi sembra che le manovre di Maria Tartaglia siano caratteristiche. In un saggio su l’internet, l’autrice cita Fernando Pivano al soggetto del’omosessualità di Pavese, e commincia un psicobiografia di lui. Ma, nella sezione “risposte” del suo sito web, quando un commentatore che si chiama “proet” scrive che “l’esperienze dolorosa e conflittuale di Pavese con le donne sono sintomi degli eterosessuali maschili squilibrati e fragili che mal corrispondono ai desideri femminili,” Tartaglia risponde “neanch’io credo che lo scrittore fosse omosessuale, ma su questo argomento scriveranno e diranno ancora molte cose. Penso che Pavese abbia incrociato una serie di donne sbagliate per lui e che fondamentalmente non lo hanno amato.” (http://rubriche.termolionline.it/lui-voleva-solo-una-donna-o-forse-no/).
Come era possibile questo circolo omoerotico di artisti ventenni? Primo caso – è ben conosciuto che Mussolini dava dei soldi a tanti artisti, e che questi artisti mostravano ai festival d’arte come I biennali di Venezia, I quadriennali di Rome, ecc. Nel suo saggio, che descrive le sovvenzioni che Penna ricette dal regime, Giovani Sedita cita “la logica clientelare e personalistica delle istituzioni culturali fasciste: chiedere era un’opportunità che il regime lasciava aperta agli intelletuali” (290). “Il fascismo, offrendosi come interlocutore, comprava il consenso sotto forma di ossequio, oppure sotto forma di silenzio,di ‘divieto’ alla scrittura. I casi molteplici del chiedere agli intelletuali raccontano il dialogo tra il potere e una porzione importante della società. La strategia politica di un regime che sul binomio coercizione/consense ha tenato di definirsi totalitario” (294).
Si deve aggiungere due qualificazioni: uno – Adrian Lyttleton ha chiamato il fascismo “un totalitario imperfetto.”. C’erano divisioni nel partito, per esempio, tra Giuseppe Bottai e Roberto Farinacci, sul soggetto di modernismo e non c’era una classa dirigente sufficiente per mantenere il regime. Due – questa “apertura” agli intelletuali – che, insieme all’ossessione del regime con romanità, lasciò aperta la porta per un antico omoerotismo che fu manipolato dagli artisti omosessuali. L’antica Grecia e Roma fornirono a Cagli e DePisis, per esempio, l’opportunità di disegnare I corpi maschili nudi.
Secondo caso – in 1889 il codice Zanardelli depenalizzò l’omosessualità “sull’intero territorio Nazionale,” e negli anni fascisti, dopo un dibattito circospetto, fu deciso di non dire niente di questo “vizio” nel codice Rocco. E Benadusi ha mantenuto che durante il ventennio, “alcune personalità autorevoli del mondo della politica, della cultura e dell’economia, realmente e notoriamente omosessuali, continuavano a godere del massimo rispetto o venivano tollerate o, quanto meno, non perseguitate” (217). Queste contradizioni furono tra le condizioni di possibiltà per alimentare un “gruppo” o perfino “sottogruppo” di artisti omosessuale ben venuti nei circoli artistici del tempo.
Infatti, ci sono tanti esempi di rapporti stretti tra degli artisti omosessuali ed eterosessuali, inclusa un’amicizia tra Penna e il pittore Mario Mafai: soppravvive una fotografia in cui appare Penna, Mafai, Carlo Levi, e Orson Wells (Pecora 369). La sorella di Cagli ha sposata il pittore Afro (Bonasegale 73); Cagli e il poeta Libero De Libero dirissero, a Roma, La Galleria della “Cometa,” la quale divenne “la centrale del[la scuola che si chiamava] Tonalismo – la quale includò anche Janni, Mafai, e Alberto Ziveri. (Morelli e Rivosecchi 21). In 1937, la Galleria lanciò una mostra a New York che incluse anche De Pisis.
Nel 1915 De Pisis incontrò, a Ferrara, Carlo Carrà, Giorgio De Chirico e Alberto Savinio, (il fratello di De Chirico,) ed insieme concepirono la pittura metafisica. Nell’arte del ventennio, una forte interesse nel pittore Rinascimentale Piero della Francesco, di cui il critico Roberto Longhi scrisse un libro in 1927. Sembrava che avesse promosso un’esplorazione del corpo maschile tra tanti artisti, sia omosessuali che eterosessuali, (se si potesse usare questa terminologia,) includendo Mafai, Janni, Cagli, Ziveri, Fausto Pirandello, Giuseppe Capogrossi, e Carrà.
Un altro problema metodologico è infatti che non solo la gestione di una terminologia sessuale corretta per l’epoca, ma anche come rendere la storia di sessualità conosciuta in anticipo; anche in discussione è la mancanza di prove (per non parlare di uomini sposati che fecero l’amore con altri uomini). Della sessualità di Capogrossi, per esempio, non ho ancora trovato neanche una parola. (Nel discorso italiano della storia di arte moderna, quando l’omosessualità dell’artista era ben conosciuta, c’era quaso la tendenza di leggerla spalla a spalla con le malattie nervosa (Janni, De Pisis); al contrario, non ho letto una parola di come l’eterosessualità di De Chirico o Carrà sia colleagata alla loro arte e malinconia.) Temo di generalizzare su come gli artisti dell’epoca capirono l’amore fisico tra uomini, dato che ci sono tanti miti che cercano di spiegare la tolleranza italiana per l’omosessualità. Sia l’idea di un’antica bisessualità pastorale persa, sia il cosmopolitanismo degli intelletuali italiani. (Il fatto che gli artisti stessi investissero in questo mito di sessualità arcadia non lo rendeva meno problematico.). La questione del livello di tolleranza per l’omoeroticismo è composto dalle differenze regionali nella storia, ed il parere generali riguarda il contatto fisico tra due uomini in Italia. Chiara Beccalossi, per esempio, suggirisce che infatti ci sia una tradizione nel Napoletano in cui, sotto condizioni specifiche, giovani uomini potevano far l’amore con uomini più maturi senza paura di ostracismo.
Come modello, in inglese c’è Women of the Left Bank, Paris, 1900-1940/Le donne della riva sinistra, di Shari Benstock, ma nell’epoca in cui lo scrisse (1987) , il problema d’instoricismo – e l’affettività – non erano attaccati (allo stesso livello) come oggi. Come storia feminista, in questo libro non c’è una mancanza totale di domande di affettività e la necessita di interrogare la storiografia maschile – finalmente, il libro è una storia culturale. Negli Stati Uniti i dibattiti sulla storia feminista e la differenza specifica tra quella e una storia normativa maschile hanno fiorito solo un po più tardi, con i lavori di Joan Scott e Gayatri Spivak, per esempio. Ed il discorso queer non ancora esisteva. Un’altra strada da seguire: la storia di positivismo Italiano.
In ogni caso, spero di scrivere una storia queer che emerga quando si incontro il passato come un amante chi “ti inonda con un campo magnetico di messagi enigmatici scoppiati” (Saketopoulou). Prendo in prestito queste parole del psicoanalista Avgi Saketopoulou, parole che, nel loro contesto originale, descrivono l’atto di sesso in sè. E, leggendo recentemente la risposta di Bernini ai dibattiti queer anti-sociali che circolano negli Stati Uniti, pensavo quanto fruttuoso sia il concetto di ambivalenza con cui Freud ha descritto quale potrebbe essere la nostra relazione alla pulsione di morte. Non solo per rispondere ai dibattiti sulla queer negatività, (come ha fatto Bernini ) che abbracciano il lessico “queer” come tanto la negazione assoluta di ogni sguardo al futuro quanto alla figura del bambino, ma anche per informare i nostri forzi di scrivere una storia queer. Ascoltare di nuovo i messagi indecifrabili del passato come “altro,” senza il fallimento di presenziare “lo stesso”: ecco il progetto di queer instoricismo.
[i]
[i] James Clifford, Routes, Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Cambridge and London: Harvard U P, 1997, 59